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Balletto di Roma – Il lago dei cigni, ovvero Il canto – Note di Fabrizio Monteverde

NOTE DI FABRIZIO MONTEVERDE

“Titolo” per eccellenza nel repertorio del grande balletto classico, Il lago dei cigni ben si presta (anche per il complesso, sofisticato arco drammaturgico della struggente vicenda rappresentata, in cui il libretto di Begicev e la stupenda musica di Cajkovskij si fondono con inimitabile fluidità) a essere punto di partenza per una riflessione sul sottile, ambiguo rapporto che lega inscindibilmente arte e vita, e se sia quest’ultima a influenzare la prima o se piuttosto non sia – secondo un vecchio paradosso – la vita a imitare l’arte. Capolavoro del teatro di danza, perfetta sintesi di composizione coreografica accademica e “notturno” romantico, di chiarezza formale e inquietanti simbologie psicoanalitiche, Il lago dei cigni è una fiaba senza happy end, in cui i due protagonisti Siegfried e Odette pagano con la vita l’amore che li lega, anche se vediamo i loro spiriti risorgere e avviarsi uniti verso una felicità ultraterrena Una di quelle “favole d’amore in cui si crede nella giovinezza”, avrebbe detto un altro grande russo contemporaneo di Cajkovskij, Anton Cechov, che nel 1887 scrive l’atto unico Il canto del cigno, in cui un attore ormai vecchio e malato, “con l’anima fredda e buia come una cantina”, ripercorre in modo struggente i grandi ruoli interpretati nella sua lunga carriera. Con una dichiarata derivazione intellettuale dal grande commediografo russo, questa proposta di Fabrizio Monteverde mette in scena un gruppo di anziani danzatori che provano un’eventuale messa in scena del Lago dei cigni come inevitabile percorso memoriale d’arte e di vita, tentando (invano?), o meglio, illudendosi (ricerca dell’happy end) di vincere la battaglia contro gli anni con la sola cosa che possono – e forse sanno – fare. Crudele, solipsistico, grottesco “jeu de massacre” – dove si mescolano teatro, immagine e, ovviamente, danza – questo Lago dei cigni/canto del cigno scava in quella zona neutra e incolore in cui l’interprete si fa, misteriosamente, personaggio, lasciandosi alle spalle volgarità e minuzie della vita quotidiana per ritrovarle, in un inquietante automatismo, ogni sera subito dopo il calare del sipario. Costante, ininterrotta ricerca che – come tutta l’arte – non conosce traguardo, allo stesso modo del personaggio bifronte di Odette/Odile, creato per una ballerina “bianca e buona” ma anche “nera e perfida”, nonché metà principessa e metà cigno, in una perenne metamorfosi che non giunge mai (ed è questa l’autentica, geniale invenzione coreografica del balletto) al pieno compimento – metafora, per l’appunto, dell’arte stessa.

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